Il mio lavoro è un misto di conoscenze tecniche, estro creativo, di esperienza personale e conoscenze acquisite “in bottega”. In molti sensi, io sono un’artigiana.
Anche per questo il mondo dell’artigianato veneziano mi ha sempre incuriosito. Da anni curo una collana di guide che si occupa di svelare la Venezia “vera” (dal cibo fino al vetro), senza inserzioni a pagamento ma solo secondo il mio (discutibilissimo) arbitrio. Una di queste guide è dedicata alle botteghe.
Una delle cose più belle delle botteghe-laboratorio è che solo lì si può trovare qualcuno che sa veramente ciò che sta vendendo. In una bottega artigiana non si compra solo un oggetto; si compra anche il “racconto” di quell’oggetto, inteso come tutto il mondo che gli sta attorno, che lo ha creato e che lo rende unico. Questa è la vera ricchezza che gli artigiani a Venezia ancora possiedono.
Con il mio piccolo sforzo cerco di invogliare i curiosi a guardare oltre la facciata turistico-plasticosa di Venezia, per scoprire quel che ancora esiste, pur tra i mille brontolamenti (“me convegnaria vender mascare de plastega”) di coloro che continuano con passione a dorare cornici, scolpire fòrcole e a sfornare fugasse.
Certo, però, si potrebbe fare qualcosa di più di un libretto di nicchia. Ma cosa?
Forse, perché il turismo sia una risorsa e non una malattia, dovremmo andare a prenderci i visitatori che vogliamo, che non per forza sono i più ricchi, ma i più attenti. Visitatori meno vulnerabili, che possono loro stessi “educare” l’offerta veneziana, perché l’osteria “tradizionale” che ti rifila una chela di granchio come cicchetto tipico fa un danno enorme. Il venditore che invece perde due minuti per raccontare come si crea la carta marmorizzata fa cultura.
Proprio per il suo passato Venezia potrebbe essere la città del futuro, in particolare per professionisti, artisti, artigiani, cuochi. Qui il rapporto umano è ancora diretto e quotidiano, ci si incontra e ci si conosce per caso, si va a bere uno spritz chiacchierando di pettegolezzi, di barche… e di lavoro, come può succedere in un paesino d’altri tempi; ma nello stesso tempo vi sono delle “verticalità” incredibili: università, fondazioni, archivi, musei, eventi internazionali. 
Dobbiamo  evitare il tanto temuto destino di “Venezialand”, città che vive e muore per il turismo e non perdere la parte più fragile della città, quella che, come sanno bene sociologi e urbanisti, una volta annientata non si può più ricreare.
Questi propositi non sono solo nostalgia. L’artigianato è qualcosa di assolutamente moderno, che non è alternativo alla produzione industriale, ma può essere complementare a essa. Se la forza di un’importante parte della produzione italiana risiede nella personalizzazione, Venezia, in questo, può essere una punta di diamante: cosa c’è di più personalizzabile di un prodotto artigianale?
Senza dimenticare l’istruzione. Possibile che in Gran Bretagna e America le università, i corsi professionali, quelli di lingua etc. siano una fonte di ricchezza, mentre qui in Italia si considera l’educazione solo come un costo? Alcune istituzioni cominciano a ragionare in modo diverso ma ovviamente si scontrano con antiche resistenze e comprensibili gelosie per i segreti del mestiere. Ma ormai tenere segrete certe lavorazioni non ha più senso. Insegnamole al mondo! E magari guadagnamoci qualcosa, non solo a livello economico ma anche per quanto riguarda la diffusione dei prodotti e del “saper fare” italiano e veneziano.
È ovvio, però, che l’esistenza degli artigiani dipende anche dall’esistenza di una comunità cittadina. Se un americano compra una fórcola probabilmente la terrà in salotto, non sulla sua barca. Non c’è niente di male in questo, però è ovvio che, se vogliamo che l’artigianato tradizionale resti vivo, c’è bisogno di una comunità che continui a comprare quei prodotti per la loro funzione d’uso, in aderenza alla stessa tradizione che li ha messi a punto in secoli di utilizzo.
Perché Venezia continui ad essere vera, attiva e abitata. Una città, insomma.